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Se Martin Luther King nasce in Medio Oriente


Se Martin Luther King

 

nasce in Medio Oriente


"Piangendo le mie figlie ho insegnato a Israele che non siamo solo numeri"

Izzeldin Abuelaish, medico palestinese, è un uomo buono, forte, ferito. Profondamente ferito, eppure mai disperato.
Quel doloroso squarcio, quello sfregio, sembra anzi essere divenuto un paradossale spiraglio attraverso cui la speranza penetra in lui e da lui si diffonde.
Perché Abuelaish, medico, scrittore, un po’ patriarca e un po’ profeta, continua a non odiare.
Il 57enne ginecologo palestinese, attivista per i diritti umani e più volte candidato al premio Nobel per la pace, non odia la vita quando nel 2008 la leucemia si porta via la moglie Nadia.
Non odia la vita quando, l’anno seguente, gli israeliani bombardano la sua casa di Gaza, uccidendogli tre figlie e una nipote. Soprattutto non odia se stesso, per essere sopravvissuto.
Eppure qualche alternativa ce l’aveva. La vendetta, per esempio.
Le dimissioni da un’esistenza con gli altri suoi cinque figli. Qualche “anestesia” per addomesticare le tenebre.
No. Abuelaish, musulmano praticante, dopo quella strage assurda stupisce il mondo e infilza tutti con un contropiede metafisico: sceglie il perdono.
Nel 2011 racconta la storia in un libro "Non odierò" tradotto in 23 lingue e che diviene presto un best-seller internazionale.
Barack Obama lo ha definito «un esempio di forza e di riconciliazione nei territori occupati».
Per il parlamento del Belgio merita il titolo di «Martin Luther King del Medio Oriente».
Per alcuni medici israeliani Abuelaish – primo dottore di Gaza ammesso a lavorare in un ospedale d’Israele – è un «ponte magico tra due mondi».
Tutto giusto, tutto vero. Eppure i conti non tornano lo stesso.
Come si fa a raccogliere nel sangue, come è successo a lui, tre figlie di 20, 15 e 13 anni e non cercare vendetta?
Incontrandolo al santuario di Oropa (Biella), invitato per una conferenza dalla fondazione “Le vie della Parola”, è la prima domanda che gli scaraventiamo addosso.
«Niente – risponde - è impossibile nella vita, perché siamo umani e possiamo scegliere tra cosa è giusto e cosa non lo è. L’odio è un veleno, una malattia capace di distruggere le persone che se ne lasciano invadere. Anche in questa tragedia c’è stato qualcosa di buono».
Prego?
«Sì, perché quando quel maledetto 16 gennaio del 2009 Bessan, Mayar e Aya sono state spazzate via dalla loro cameretta piena di sogni, io ho chiamato un amico, il giornalista israeliano Shlomi Eldar, che in quel momento stava conducendo il TG. Lui ha avuto il coraggio di ritelefonarmi in diretta, e così tutto il paese ha potuto sentire dalla mia voce il racconto di quel dramma. Forse per la prima volta gli israeliani non hanno visto i palestinesi come dei numeri, cifre di un problema da risolvere, ma come esseri umani».
Si nasconde qui la possibilità di una pace tra i due eterni contendenti?
«Lo penso davvero perché conoscendoci come persone, possiamo renderci conto di quanto siamo simili. Gli estremisti sono una minoranza».
Estremisti. Come il soldato che ha sparato i colpi mortali dal carro armato?
«Credo che nella sua coscienza si sia già punito. Un giorno diventerà padre. E allora si renderà conto».
Insiste, Abuelaish: «La morte delle mie ragazze ha fatto sì che gli israeliani vedessero la nostra sofferenza. Certo, questa mia posizione è impossibile senza la fede: Dio mi ha dato le mie figlie in custodia e poi se le è riprese. Ancora oggi parlo continuamente con loro. E che cosa dovrei dire a Bessan, Mayar e Aya: “Sapete che sto odiando per voi?”».
Invece il medico ha dato vita alla fondazione “Daughters for life”, con sede a Toronto, dove dal 2009 vive e lavora.
La fondazione aiuta le donne del Medio Oriente a studiare e ad emanciparsi.
«Le mie ragazze rivivono attraverso questa realtà: sono convinto che educare una giovane, significhi educare il mondo. Una donna istruita, tirerà su una famiglia istruita. L’educazione è la vera, decisiva, arma contro la guerra».
Qui, in “Daughters for life”, finiscono i guadagni derivanti dalle conferenze di Abuelaish, i proventi del suo libro. Anche di quello che sta per scrivere: «Sarà la documentazione di come è cambiata la mia esistenza e quella dei miei figli dopo quello che ci è successo». Nelle casse della fondazione pioveranno pure gli eventuali risarcimenti che Abuelaish ha chiesto allo Stato di Israele.
Il governo ha ammesso l’errore, parlando di “danno collaterale”, ma non ha mai presentato le sue scuse.
«Le voglio – dice lui –, il perdono non esclude la giustizia».
I giudici israeliani hanno chiesto che l’uomo, nel caso perdesse la causa e dovesse coprire le spese processuali, versi in anticipo l’equivalente di 15mila euro, 5mila per ogni figlia uccisa.
E’ la burocrazia della morte.
Difficile non odiarla.

(Mauro Pianta)

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