L'Etiopia dall'aereo

Giuseppe da
Addis Abeba (Etiopia)



Appunti di missione - 1

Partenza


 

E’ un richiamo continuo quello dell'Africa.

Un richiamo costante, che si allenta, poi si acuisce, poi si attenua, eppoi di nuovo si inasprisce.

Un richiamo che diventa quasi una tentazione, nelle giornate invernali padane, di umidita’, e di scarsa luminosita’.

Un richiamo che diventa quasi un fardello, nelle giornate in cui pare che l’ambiente ti impregni e ti imprigioni nel nichilismo e nella sfiducia, che paiono imperversare nell’Italia odierna, avvinghiata in una morsa di avvilimento politico e sociale, di regressione culturale, con la solita cronaca, tra corruzioni e voyeurismi di nera e di gossip.

Mentirei se dicessi che non ho paura dell’Africa, e non tanto per i rischi piu’ o meno concreti durante il periodo di missione, quanto perche’ il rischio e’ di rimanere un po' incompresi, sia qui che la', appesi e schiacciati tra quel mondo, “un altro mondo”, e  questo mondo.

Da domani, a Dio piacendo, saro’ in quell’altro mondo, a convivere con un clima meteorologico totalmente differente, molto piu’ forte e naturale, forse piu' sano, a condividere un comune destino con la comunita' in cui saro' ospite, in un ambiente duro, dove l’uomo e’ ricondotto, dalla natura, ad un ruolo quasi marginale, se non per le vicende umane.

Gia’, perche’ l’Africa e’ soprattutto questo, vicende umane: relazioni, vita, morte, dolore, gioia, e tanta ed incondizionata speranza.

Che straordinario dono poter vivere con loro, tentando l'inculturazione; che straordinaria opportunita': uscire e cambiare punto di vista!

Ricordo la mia prima esperienza, un po’ di anni fa’, ricordo lo shock dei primi giorni in Etiopia, in un’orfanotrofio di bimbi sieropositivi dov’ero volontario: nonostante le diverse faticose esperienze precedenti, tra medio oriente ed Americhe, non immaginavo, non potevo, non avevo ( e non ho ) categorie mentali adatte per riconoscere un’ambiente di poverta’ cosi’ estrema, infame, orribile.

Di fronte a quel contesto, mi chiesi “che sei venuto a fare qui?, cosa te ne fai dei tuoi begli ideali, dei tuoi bei schemi politici dinanzi a questa realta’?”.

Quelle domande mi frantumarono.

Ne uscii.

Ne uscii ascoltandomi, ricostruendomi, ricollocandomi, ricollocando le mie fragilita’ di uomo, le mie incapacita’, le mie impotenze, ne uscii con la preghiera e con la certezza che c’e un mistero grandioso, che ci sono delle forze che non governiamo.

La cosa che mi fece piu’ male arrivo pero’ dopo, al rientro da quella prima esperienza missionaria in Africa: a Milano, rientrato da qualche giorno - ancora completamente immerso nella dura realta’ dell’orfanotrofio per bimbi affetti da hiv, una realta’ soprattutto di gioia, di amore, di condivisione, di fede - seduto al tavolo di un bar elegante, osservavo un’umanita’ curata esteriormente, ma imbronciata, forse sofferente, nell’anima, si capiva.

Quella scena equivalse ad un pugno inaspettato al mio stomaco: “ma come! arrivo da un’esperienza in uno dei paesi piu’ poveri al Mondo, dove manca tutto, eppure quanta gioia, voglia di vivere, fiducia, speranza, ho scorto in quei bambini, in quelle donne, in quegl’uomini, ed invece qui, qui nella ricca Milano vedo intorno a me visi scoraggiati, di cattivo umore, stizziti, ma com’e’ possibile?”.

La speranza: le mie esperienze africane mi hanno impregnato di speranza, una speranza che pare scarseggiare qui in Europa.

Ma cos’e’ la speranza?

Riportero’ le parole di  Francesco, un pontefice che sento profondamente ed autenticamente Padre: “per avvicinarci un po’ possiamo dire per prima cosa che è un rischio. La speranza è una virtù rischiosa, una virtù, come dice san Paolo, un’ardente aspettativa. Non è un’illusione.

I primi cristiani la dipingevano come un’ancora. La speranza era un’ancora; un’ancora fissata nella riva dell’aldilà. La nostra vita è come camminare sulla corda verso quell’ancora.

Ma dove siamo ancorati noi? Siamo ancorati proprio là, sulla riva di quell’oceano tanto lontano o siamo ancorati in una laguna artificiale che abbiamo fatto noi, con le nostre regole?

Siamo ancorati là dove tutto è comodo e sicuro? Questa non è la speranza.

«quando una donna è incinta, è donna, ma è come se si trasformasse quando diventa mamma.
E la speranza è qualcosa di simile: cambia il nostro atteggiamento.
Per questo chiediamo la grazia di essere uomini e donne di speranza».

A sentirci presto.

Giuseppe Luca

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