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Giuseppe in Etiopia

Giuseppe dall'Etiopia - 8 Maggio 2015

Appunti di missione

Rose (Spinose) d'Africa


 

L' Etiopia, in pochi anni, é diventata la nuova frontiera della produzione di fiori, una frontiera comoda e remunerativa per le grandi multinazionali del settore, quantomeno controversa per l'ambiente naturale circostante le chilometriche serre, e per quelle decine di migliaia di dipendenti etiopi, soprattutto donne, che lavorano nella produzione.

Se in un supermercato occidentale, anche italiano, state adocchiando delle rose da comprare, per farvi un regalo, da regalare per un anniversario, o per dichiararvi alla vostra innamorata, può essere che vi stiate imbattendo in fiori prodotti nel paese del Corno d'Africa.

A Zway (in italiano Zuai), piccolo centro 200 km a sud di Addis Abeba, nelle vicinanze della strada panafricana che dalla capitale etiope conduce a Nairobi, capitale del kenya, sorge la più grande produzione di rose in Etiopia, quella dell' olandese Sher.

Tanto per darvi un'idea: Zway ha una popolazione di circa 40 mila persone, la Sher impiega, in questo stabilimento, quasi 15 mila persone, quasi tutte donne, quindi, a stima, é come se quasi tutte le abitanti della cittadina etiope, fossero impiegate nelle serre chilometriche che si affacciano sull'omonimo lago, conosciuto per essere l'habitat di numerose specie, anche rarissime, di uccelli, e perché, secondo la tradizione, nell'antichissimo monastero copto, che sorge sulla cima dell'isola, nel mezzo alle acque del lago, sarebbe stata custodita, per sette anni, prima di essere nuovamente riportata ad Aksum, l'arca dell'Alleanza.

Una frontiera, quella della produzione di rose in Etiopia, che segue, non solo geograficamente, a quella ormai superata, perché scomoda e sconveniente economicamente, del Kenya, dove già nei primi anni del duemila, alcune organizzazioni ambientaliste lanciarono l’allarme per l’uso incontrollato dei pesticidi, e dove la giustizia condannò per sfruttamento diverse multinazionali.

Dunque dal Kenya ci fù, già una decina di anni fa, un esodo verso l'Etiopia, le ragioni principali: costi di produzione più bassi (anche perché in sole tre ore di spostamento con enormi tir, si trasportano i carichi verso l'hub principale d'Africa, l'aeroporto Bole di Addis Abeba, dove successivamente le rose vengono caricate sui cargo direzione Amsterdam, centro mondiale di smistamento dei fiori recisi, dove i grandi distributori acquistano per poi riesportare nel resto del mondo), e manodopera locale ancor più a buon mercato, quasi tutta femminile, dai diciassette anni in su.

Nessuna indossa guanti o grembiuli da lavoro, nemmeno l’ombra di mascherine per difendersi dai pesticidi, temperatura, nelle serre, che si aggira tranquillamente sui 40 gradi, un salario per i dipendenti della Sher di Zway, mediamente di 800 birr mensili (meno di 40 euro).

All'interno di questa immensa sede, la multinazionale ha costruito un ospedale, un asilo ed una scuola per i figli delle dipendenti, che però si ammalano con sempre più frequenza, e sempre più sono i casi di aborti spontanei.

Questa coltivazione intensiva di rose, richiede grandi quantità d'acqua, che viene prelevata ed infine sversata, al termine della filiera, nel lago adiacente lo stabilimento, dove, peraltro, i locali portano il bestiame ad abbeverarsi.

Acqua che entra pulita e fuoriesce inquinata: probabilmente di prodotti chimici e pesticidi, gli stessi che pare compromettano la salute delle dipendenti di questa produzione.

Ma il business, spinoso, delle rose d'Etiopia, pare ormai inarrestabile, per gli incentivi che il governo di Addis Abeba, in piena frenesia di crescita (il pil etiope cresce da quasi un quinquennio mediamente del 10% annuo), elargisce alle multinazionali che investono (per i primi cinque anni di attività non pagano alcuna tassa, l’importazione dei macchinari e delle infrastrutture avviene senza spese doganali, l’affitto mensile della terra costa poco) e per l'enorme bisogno di lavoro che vi é in questo paese, fino a pochi anni fa uno dei più poveri in assoluto del Mondo.

L'unica voce di denuncia, rispetto a queste evidenti situazioni di sfruttamento, rimane quella dei missionari cattolici presenti sul campo.

Giuseppe Luca

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