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Una scelta coraggiosa

  
Una scelta coraggiosa:

  la storia di Yakout

 



Quando Kholoud ha scoperto che la creatura che portava in grembo sarebbe nata con gravi disabilità, ha trovato il coraggio di dire sì alla vita.
Nonostante le difficoltà, oggi la piccola Yakout è un tesoro inestimabile per la famiglia.
L’Ospedale pediatrico di Betlemme ne promuove lo sviluppo nel miglior modo possibile. 

«Qui manca un pezzo di spina dorsale», disse il medico con tono serio. «E la bambina ha una quantità insolita di liquido nel cranio». La notizia colpì Kholoud dritto al cuore: il suo quarto figlio sarebbe nato con la spina bifida. Le settimane successive furono un vero turbinio di emozioni. Kholoud iniziò un pellegrinaggio da un medico all’altro, spostandosi da Hebron a Betlemme, fino ad arrivare a Tel Aviv. «Mi dicevano che probabilmente la piccola non avrebbe mai potuto camminare», ricorda.

Dilaniata dai dubbi e dalle paure, Kholoud trovò conforto nella fede. «Mi sono decisa a tenere la bambina. Dio mi aiuterà», disse, e quella scelta le infuse la forza necessaria per proseguire con la gravidanza. Sentiva che la piccola era un dono prezioso, una gemma rara. Per questo motivo, ancora prima che nascesse, decise di chiamarla Yakout, che significa “rubino”.

Yakout venne alla luce in una sala operatoria di un ospedale di Hebron. Subito dopo il parto, fu trasferita in terapia intensiva e sottoposta a delicati interventi chirurgici al midollo spinale e alla testa. Dopo sette settimane, finalmente, fu dimessa dall’ospedale.

I suoi tre figli maggiori – Nour e Aisha, di 10 e 8 anni, e Ismail, di 6 – instaurarono fin da subito un legame speciale con lei.

Quando Yakout compì un anno, Kholoud fu travolta da nuove preoccupazioni. «Lascia cadere tutto di continuo», osservava anche Nour, la sorella maggiore. Lo sviluppo cognitivo di Yakout appariva più lento rispetto a quello degli altri fratelli. La famiglia decise così di rivolgersi al dottor Nader Handal, neurologo presso il Caritas Baby Hospital, nella speranza di ottenere risposte e supporto.

«Per crescere, un bambino ha bisogno di movimento, anche se non è in grado di camminare», spiegò il dottor Nader con convinzione. «Per questo abbiamo avviato la fisioterapia e l’ergoterapia per sviluppare le sue capacità motorie. Inoltre, ci assicuriamo di prevenire l’accumulo di liquidi nel cranio, che potrebbe compromettere lo sviluppo cerebrale».

Le terapie ambulatoriali, che Kholoud prosegue con precisione a casa attraverso esercizi appresi con cura, hanno presto dato i loro frutti. «Il dottor Nader e il suo team ci hanno sostenuto in ogni modo possibile», racconta Kholoud. «Hanno analizzato le difficoltà di Yakout da ogni punto di vista, guidandoci verso le soluzioni migliori per lei».

Presto Yakout iniziò a prendere e tenere saldamente gli oggetti, mentre la sua curiosità cresceva a vista d’occhio. Sorrideva, pronunciava le prime parole e imitava le persone intorno a lei. Oggi è una bambina vivace, piena di gioia e con un carattere irresistibile.

Yakout partecipa attivamente alla vita quotidiana, con la famiglia e i vicini che la coinvolgono in ogni attività. Grazie al supporto specializzato dell’Ospedale Pediatrico di Betlemme, sta facendo enormi progressi, e c’è persino la possibilità che in futuro possa frequentare la scuola. «Ne sono sicura», afferma Kholoud. «E un giorno aiuterà anche gli altri. È il mio più grande desiderio».

La guida

  
Esuberante

  contagiosa

    gioia

di don Valentino Salvoldi 

 

“In questo Anno della fede mi piacerebbe che raccontassi un Natale di cui serbi nella memoria o nel cuore un particolare ricordo”.

L’Harmattan, vento secco e polveroso, passa sul deserto, raccoglie fini particelle di polvere e spira sull’Africa subsahariana. A volte limita notevolmente la visibilità e oscura il sole per diversi giorni, risultando paragonabile alla nebbia fitta. Spesso, in Nigeria, si riversa come provvidenziale fonte di sollievo contro l’opprimente calura, così che viene soprannominato “Il dottore”, grazie al refrigerio che concede alla popolazione, in dicembre. Accarezzato e avvolto nell’Harmattan, prego passeggiando nel bel giardino del seminario di Ibadan, mentre alcuni bianchi ibis volteggiano eleganti in cielo e mi volano accanto, quasi a voler allietare la mia solitudine, ora che i seminaristi sono in vacanza. Mi accosta un catechista: «Padre, potrebbe celebrare la messa di mezzanotte, a Natale, nel mio villaggio?». Avuto il consenso, avanza un’altra richiesta: «Ma sarebbe bello se lei venisse anche questa domenica, così potrebbe preparare i ragazzi che riceveranno la Prima Comunione». La liturgia della quarta domenica di Avvento offre l’occasione per parlare delle Vergine Madre, Myriam, la donna forte che dà alla luce suo Figlio fuori dal villaggio, perché per lei e per suo marito non c’è posto all’albergo. Donna grande non per ciò che ha ricevuto, ma perché ha creduto. Il mio insistere sulla fede suona un po’ strano, perché in tante parti dell’Africa non è un problema credere, ma l’essere atei o agnostici. « È facile per voi credere in Dio – spiego ai comunicandi –, ma occorre vederlo sul volto dei nostri fratelli. Vi garantisco che, se pregherete intensamente per quattro giorni, giovedì, festa di Natale, vedrete Gesù». Terminata l’eucaristia, i chierichetti mi accompagnano in seminario, ammassati su una camionetta. Mi vogliono fare da guardia del corpo, per paura che capiti qualche cosa di brutto all’“uomo di Dio”. Fuori dal villaggio, un ragazzo chiede all’autista di fermare la camionetta: ha visto una pozzanghera (dove io non laverei neppure i piedi) e propone agli amici di bere. Mentre attendo il ritorno di quei marmocchi, sento un flebile lamento. È una giovane ragazza che ha appena partorito il suo bambino. È sola, madida di sudore, gli occhi iniettati di sangue. Il suo piccolo, come tutti i bambini africani appena nati, ha la pelle bianca (diventerà nera nel giro di poche ore). Chiamo i ragazzi e dico loro: «Venite a vedere Gesù bambino». Uno di loro mi chiede: « È già nato? Hai detto che mancavano ancora quattro giorni!».La giovane ragazza madre guarda la sua creatura con indicibile dolcezza.«E i pastori?», chiede un altro ragazzo. «E gli angeli?», aggiunge un terzo. Ora tocca a me spiegare che chi prega, chi guarda la realtà con gli occhi stessi di Dio, lo vede sul volto del più piccolo dei nostri fratelli e che ogni giorno può essere Natale.

È Natale quando vivo quella povertà che fa di Cristo la vera ricchezza.
È Natale quando mi fido degli altri come Dio si è fidato di me.
È Natale quando perdono gli altri così come Dio continuamente mi perdona.
È Natale quando ospito in casa una persona che è sola.
È Natale quando mi chino su di un bambino vedendo in lui i lineamenti del “Dio che si è fatto uomo, perché l’uomo si faccia Dio”.

C’è un’atmosfera magica nel villaggio nigeriano la notte di Natale. Ancora gli ibis, quali improvvisati angeli, volteggiano sulla grande capanna che funge da chiesa, mentre tantissimi canti salgono al cielo. Canti e preghiere spontanee a non finire: gli Africani non lesinano il loro tempo al Signore, perché sono convinti che «quando Dio creò il tempo, ne creò tanto». All’offertorio, i fedeli portano all’altare i loro doni: qualche banana, una bottiglia d’acqua potabile per il missionario (che non beve l’acqua delle pozzanghere), uno jam, la manioca, la cassava, qualche mango… Mentre essi danzano, io non riesco a nascondere la mia tristezza: ho portato un po’ di caramelle, ma sono assolutamente insufficienti per tutti quei bambini che non so da dove vengano e mi paiono triplicati rispetto alla precedente domenica. Il catechista sembra leggere sul mio volto la tristezza e mi chiede: «Padre, che cosa non va?». «Le mie caramelle non arriveranno da nessuna parte…». «Ma lei non sa che noi facciamo i miracoli!». E il miracolo si ripete: quando porto la scatola di caramelle, i chierichetti più grandi contano i presenti, rompono con i denti le caramelle e imboccano i bambini, cominciando dai più piccoli. Tutti ne hanno un pezzetto, ricevuto come se fosse una particola. Siccome le caramelle hanno gusti differenti, i bambini le succhiano per qualche secondo, poi se le passano… E riprendono a muoversi in passi di danza. Ai seminaristi nigeriani avevo insegnato che il prete deve essere il collaboratore dell’altrui gioia. Ma in questa notte santa, sono i fedeli a contagiare l’uomo di Dio che sperimenta la verità dell’affermazione biblica: «La mia gioia è stare con i figli dell’uomo». E, invitato dal catechista a esprimere ancora qualche pensiero, spontanee fluiscono le parole. La gioia di Dio e la sua gloria consistono nel trovare sulla terra gente contenta, dedita alla giustizia e innamorata della pace. Dal canto degli angeli sopra la grotta di Betlemme si deduce che la gloria di Dio è la pace tra gli esseri umani che Egli ama. Lo “shalom” (totalità dei beni, apice dei quali è appunto la pace) dà gioia e comunica la forza di illuminare la più oscura notte e forzare l’aurora a nascere. È questo il segreto del Natale: tornare ogni giorno da capo, affinché la gioia e la gloria di Dio diventino anche le nostre. Canti e danze si prolungano nella notte. I giovani mi invitano alla danza e la mia risposta: «Non sono capace di danzare» suona alle loro orecchie come: «Non sono capace di vivere». Provo a muovermi in modo buffo e goffo, e danzatori provetti volteggiano accanto a me, per coprire i miei scoordinati movimenti.
Al momento del congedo c’è un’ultima preghiera. Oltre che per i fedeli presenti alla liturgia natalizia, chiedo agli Africani che preghino perché gli Occidentali si mettano alla scuola dei poveri, degli ultimi e di quanti, pure adulti, hanno conservato il senso della meraviglia e la capacità di sognare. Che cerchino Dio con tutte le forze. Incontrandolo, il loro sogno resterà eterno e loro stessi eviteranno d’invecchiare dentro. Rimarranno giovani come il loro ottimismo. Giovani come la loro speranza. Giovani e belli come Gesù, sulle cui orme troveranno la loro vera umanità; apprenderanno il gusto di vivere; faranno emergere il Dio velato dalla carne e svelato dall’Amore e doneranno al mondo la loro esuberante, contagiosa gioia.

 

La guida


 
Il razzismo



 


Il pregiudizio razziale troverà sempre un fertile terreno in quella piccola e debole cosa che è il cervello umano (
James Baldwin).

Scrive mons. Gianfranco Ravasi nel suo splendido libro “Le parole e i giorni”

"Amo viaggiare anche in città sui mezzi pubblici. Tempo fa di notte, rientrando da un viaggio, avevo preso al volo una delle ultime corse della metropolitana. Avevo guardato i miei compagni di viaggio all’interno di quel vagone. Io ero l’unico bianco. Mi era sembrato di avere davanti una parabola del nostro futuro, quando la miscela dei popoli sarà così densa da rendere comune una simile esperienza. Capisco, però, che tutto questo avverrà con fatica: le paure reciproche sono costantemente in agguato e possono esplodere con veemenza. E uno dei primi fuochi devastanti è quello del razzismo, come dice la frase che ho sopra proposto e che non a caso è di uno scrittore afroamericano, James Baldwin, un autore che fu fortemente impegnato nella sua patria sul tema dei diritti civili e dell’integrazione. Il razzismo pacchiano e isterico del nazismo, quello un po’ ridicolo e fanfarone del fascismo, la xenofobia che ancora oggi serpeggia sotto le  apparenti forme di autodifesa nasce appunto dalla paura dell’altro e del diverso. Certo, la coesistenza delle differenze è spesso ardua ed esige un lavoro paziente di dialogo e di rispetto da entrambe le parti. Tuttavia la brutalità del rigetto razzista, oltre a non risolvere i problemi, anzi a renderli più tesi, non libera dai timori e rende la vita piena di fiele e acrimonia".

"Dio creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitassero sulla faccia della terra" dice san Paolo ad Atene (Atti 17,26).

Cerchiamo di tirar fuori da noi e dagli altri l’Adamo, cioè l’umanità che tutti ci accomuna.”

 

La guida


 
La guida




Il giorno era iniziato male e stava finendo peggio. Come al solito, l’autobus era molto affollato. Mentre venivo sballottata in tutte le direzioni, la tristezza cresceva.
Poi sentii una voce profonda provenire dalla parte anteriore dell’autobus: “Bella giornata, non è vero?”. A causa della folla non riuscivo a vedere l’uomo, ma lo sentivo descrivere il paesaggio primaverile, richiamando l’attenzione sulle cose che si avvicinavano: la chiesa, il parco, il cimitero, la caserma dei pompieri. Di lì a poco tutti i passeggeri guardavano fuori dal finestrino. L’entusiasmo era così contagioso che mi misi a sorridere per la prima volta nella giornata.
Arrivammo alla mia fermata. Dirigendomi con difficoltà verso la porta, diedi un’occhiata alla nostra “guida”: una figura grassottella, con la barba nera, gli occhiali da sole, con in mano un bastone bianco. Era cieco!
Scesi dall’autobus e, all’improvviso, tutta la mia tensione era svanita. Dio nella sua saggezza aveva mandato un cieco che mi aiutasse a vedere: a vedere che, sebbene a volte le cose vadano male, quando tutto sembra scuro e triste, il mondo continua ad essere bello.
Canticchiando un motivetto salii le scale del mio appartamento. Non vedevo l’ora di salutare mio marito con le parole “Bella giornata, non è vero?

                                                                                                   (da “365 piccole storie per l’anima” di Bruno Ferrero)

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