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Frate Aklilu dà il benvenuto in amarico





Domande e risposte





Quel benvenuto in amarico sulla lavagna della serata a Lainate avvicina un mondo lontano.

Per vivere in pace con tutti ci vuole così poco: un po’ più di tolleranza e di pazienza nel comprenderci a vicenda, senza l’arroganza tipica di chi si crede superiore. Chi è superiore a chi? Siamo superiori noi occidentali perché abbiamo una tecnologia più avanzata o perché siamo vestiti meglio? Perché abbiamo il piatto pieno di cibo o possediamo un iPhone5? La cultura è un affare di razza?

Sono molti gli interrogativi e a mio modo di vedere c’è una sola risposta e sta nel Vangelo. Nel Vangelo ci sono tutte le risposte a cominciare dalla prima e più grande:
“Amerai….”

E se ascoltassimo fino in fondo la testimonianza di Enrico capiremmo come la sensibilità e la profonda cultura di un popolo che soffre con dignità sono una fonte da cui attingere per imparare a essere diversi. Finalmente attenti agli altri. Perché “gli altri” siamo noi, sempre e dovunque.

Appartengo a una generazione (quella del dopo-guerra) dove l’educazione al sacrificio, alla generosità e alla solidarietà ci veniva impartita fin dalla più tenera infanzia. I nostri genitori avevano sofferto, patito la fame, la paura, il freddo e la povertà. Eppure ci hanno insegnato a curarci del prossimo. Allora perché noi che ora ne abbiamo la possibilità non ci riprendiamo questo bagaglio umano prezioso? Se urlassimo con forza una volta per tutte che l’amore e il vivere bene cominciano dalle piccole cose: dal non imbrattare le strade, dal non guardare con sospetto ogni straniero, dall’essere un pizzico più attenti ai bisogni primari di chi ci passa accanto, dal cedere il posto a sedere in autobus, dal presentarci con un sorriso invece che col solito grugno insoddisfatto... si potrebbe fare un lungo elenco di esempi.

Pensate che tutto ciò sia solo utopia o che si possa fare? Non è così difficile trasmettere questa cultura ai nostri figli, basta iniziare.
Tutti siamo scontenti di come abbiamo ridotto la nostra società: cominciamo a cambiare una buona volta, non da domani, DA OGGI!

Lo abbiamo già detto in altre occasioni: basta crederci.
Yes, we can!

                                                                                                                                                                   Gabriella

Soci fondatori





Ci presentiamo...







..."Ci presentiamo.... siamo i nove amici soci fondatori de Il Seme della Speranza o.n.l.u.s."...

Che emozione sentirci nominati uno ad uno e applauditi con grande calore dai tanti presenti in sala!

I nostri sostenitori ci hanno dimostrato la loro approvazione e incoraggiato a camminare nella strada che abbiamo deciso di percorrere insieme.
Siamo uniti da una forte amicizia e con grande determinazione e complicità continueremo in questo percorso con tutte le nostre forze per raggiungere traguardi importanti e non deludere chi crede in noi.

A tutti il nostro grazie di cuore...

Tiziana, Gabriella, Flavia, Enrico, Ivana, Ivano, Fabiana, Paolo e Paola.

Blowin in the wind






Blowin' in the wind







Leggendo gli scritti di don Valentino Salvoldi, mi sono imbattuta in questa lettera che parla di una canzone cantata e ricantata tante volte ai tempi della mia giovinezza in oratorio e anche con grande emozione, ultimamente durante una funzione religiosa. Una canzone bellissima che invito tutti a riascoltare ed ad interpretare come don Valentino ci consiglia di fare.

                                                                                                                                                                Tiziana

Cari Amici,
purtroppo dobbiamo constatare ogni giorno che “il mondo” per sua natura pone la sua speranza nelle cose fallaci ed effimere, come la ricchezza, il potere e il piacere, e di conseguenza ne resta inevitabilmente deluso, e quindi si dispera. Disperandosi, non ha la sapienza di cercare la speranza dove c’è, ma agisce rabbiosamente per far disperare più persone che può.

Anche noi che cerchiamo di seguire la Buona novella siamo tentati dal “mondo” e dalle sue sirene, anche noi cadiamo nell’errore, ed è per questo che ogni volta che celebriamo la Messa dobbiamo chiedere perdono a Dio, e ai fratelli, per i nostri peccati. Ma non ci lasciamo tentare dalla disperazione perchè abbiamo la Via, la Verità, la Vita. E abbiamo mille indicazioni ed esempi che ci dicono che possiamo trovare un percorso verso la salvezza. Possiamo ispirarci a tante grandi figure della cristianità, ma anche di altre religioni, o di non credenti, o alle molte donne e ai molti uomini che sono in ricerca autentica e sofferta della verità. Sono molti che ci propongono motivi di forte speranza per il futuro.

Noi continuiamo a guardare tutte le vicende del pianeta nella prospettiva della fede e con occhi di speranza, e per questo voglio proporvi una riflessione su una grande canzone di Bob Dylan, “Blowin’ in the wind”, che noi e milioni di giovani abbiamo tante volte cantato. Ve la voglio riproporre nel suo significato vero, perchè era un canto pieno di speranza e ricerca, ma in Italia è stato presentato con significato opposto: desidero riproporvi anche qui la prospettiva della speranza. Riprendo gli articoli comparsi su “Avvenire”, perché d’ora in poi possiamo cantare anche noi questa canzone come viene cantata nel resto del mondo. Il ritornello della canzone è stato tradotto in italiano: “Risposta non c’è, o forse chi lo sa, caduta nel vento sarà”, che è un urlo nichilista e disperato, che significa: “inutile affannarsi, gente, tanto, non c’è speranza”. E invece il testo di Bob Dylan è: “The answer, my friend, is blowin’ in the wind” che è totalmente altra cosa, e cioè: “La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento”. Che secondo me richiama il biblico invito del Padre al suo popolo: “Shemà, Israel”, “Ascolta, Israele”. Ed è bellissimo perché invita ciascuno a farsi partecipe attivo, e per questo la canzone di Dylan invita innanzitutto a porsi in ascolto. Ascolto che non è di una lezione a chiare lettere, ma è ascolto di un discorso trasportato dal vento.

Occorre concentrarsi, allontanarsi dal frastuono quotidiano, fare la fatica di captare le note di verità: ci vuole testa, cuore, pazienza, raccoglimento e approfondimento. Dylan non è arrabbiato col mondo e infatti dice “My friend”, amico, fratello. E pone domande radicali: quanto dovrà camminare, affannarsi, e tribolare un uomo prima di potersi dire veramente uomo, ossia scoprire la verità su se stesso e comprendere il suo posto e la sua missione nel mondo? E il ritornello sembra un’invocazione allo Spirito Santo. Bob dice che il modo migliore di rispondere a certe domande è cominciare a porsele insieme: “Quante strade deve percorrere un uomo….Quanti mari deve superare una colomba….Quanto tempo dovranno volare le palle di cannone…?”. Bob, che era esplicitamente senza un credo, era altrettanto esplicitamente alla ricerca di valori. È vero che ha detto: ” Non capisco cosa attragga le persone in Cristo”, ma anche: “Quanto Egli dice ne fa leader senza tempo”.

Certo se Dylan fosse stato nichilista o relativista innanzitutto non si sarebbe neppure posto domande esistenziali. La sua risposta resta aperta perché mette in gioco correttamente il proprio ruolo d’artista, e cioè stimola e non predica. Ascoltare, dunque, e poi riflettere, e meglio riflettere insieme che da soli, isolati nell’individualismo. E da un ascolto profondo verrà la comprensione profonda innanzitutto dell’essenza interiore d’ogni uomo, e poi della dimensione comunitaria, con l’impegno che essa richiede a ciascuno. Il futuro aspetta il nostro contributo per far germogliare altri semi di giustizia e di pace.

                                                                                                                                                                  Don Valentino Salvoldi

Bambini di strada





Bambini di strada





Si sente parlare di Etiopia, solitamente, per le tensioni con l’Eritrea. Ma non si parla mai dei suoi bambini di strada.

Addis Ababa, il nuovo fiore, conta oggi una popolazione di 2,7 milioni di abitanti. E’ una città in fermento ed in continua espansione. Dalle campagne circostanti c’è un afflusso continuo di disperati che sperano di trovare in città una sistemazione ed un lavoro. Quasi sempre è un’illusione. Intanto stime non ufficiali parlano di almeno 60.000 bambini di strada.

A Soddo ci sono oltre 2000 street children. Sono bambini che per ragioni diverse vivono per la strada cercando giornalmente di sopravvivere. Le cause di abbandono di questi bambini sono varie: morte dei genitori, fuga dalla famiglia per trovare la sussistenza che la famiglia stessa non può offrire, rifiuto da parte del padre o della madre in occasione di un nuovo matrimonio, gravi malattie che causano il loro allontanamento. I bambini di strada possiedono solo quello che indossano, dormono sotto le verande dei negozi o, durante la stagione delle piogge, nelle grandi tubature delle rare fogne. Cercano di sopravvivere procurandosi ogni giorno qualcosa da mangiare, rubando o vendendo al mercato quello che trovano per strada (per loro anche una bottiglia vuota di plastica ha un grande valore), facendo piccoli lavori come vendere i famosi “brush” (stecchini di eucalipto per pulire i denti), curando gli animali, scaricando camion o andando a prendere l’acqua alle sorgenti, spesso distanti chilometri. I più fortunati hanno solo una delle 4 malattie tipiche della zona (malaria,tifo,tbc e hiv) e nessuno di loro frequenta la scuola. 

Tiziana ed Enrico durante la loro esperienza di volontariato a Soddo, hanno toccato con mano questa realtà visitando con frate Aklilu il Centro recupero bambini di strada della Missione Cattolica, sulla collina di Golla. La struttura è gestita da Marcella, educatrice di grande esperienza internazionale, che si avvale della preziosa collaborazione di Asmalash Ayza, soprannominato Busajo. Lo stesso Busajo era un ragazzo di strada; adesso è una specie di fratello maggiore che avvicina i bambini, risolve i problemi burocratici con le famiglie, si prende cura di loro, li rimprovera, li incoraggia. Non a caso il suo nome in amarico significa “colui che vede tutto”. Insieme hanno avviato il progetto Smiling Children Town le cui modalità di intervento non sono la beneficenza ma in primo luogo l’educazione e la formazione delle giovani generazioni, dando loro le basi culturali e insegnando loro dei mestieri che possano, in futuro, renderli autosufficenti. Nel progetto sono coinvolti 200 bambini, di cui oltre 100 a tempo pieno.

“Se sei a terra non strisciare mai
se ti diranno sei finito... non ci credere
devi contare solo su di te
uno su mille ce la fa
ma quanto è dura la salita
in gioco c’è la vita”
(Gianni Morandi)

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