Esuberante
contagiosa
gioia
di don Valentino Salvoldi
“In questo Anno della fede mi piacerebbe che raccontassi un Natale di cui serbi nella memoria o nel cuore un particolare ricordo”.
L’Harmattan, vento secco e polveroso, passa sul deserto, raccoglie fini particelle di polvere e spira sull’Africa subsahariana. A volte limita notevolmente la visibilità e oscura il sole per diversi giorni, risultando paragonabile alla nebbia fitta. Spesso, in Nigeria, si riversa come provvidenziale fonte di sollievo contro l’opprimente calura, così che viene soprannominato “Il dottore”, grazie al refrigerio che concede alla popolazione, in dicembre. Accarezzato e avvolto nell’Harmattan, prego passeggiando nel bel giardino del seminario di Ibadan, mentre alcuni bianchi ibis volteggiano eleganti in cielo e mi volano accanto, quasi a voler allietare la mia solitudine, ora che i seminaristi sono in vacanza. Mi accosta un catechista: «Padre, potrebbe celebrare la messa di mezzanotte, a Natale, nel mio villaggio?». Avuto il consenso, avanza un’altra richiesta: «Ma sarebbe bello se lei venisse anche questa domenica, così potrebbe preparare i ragazzi che riceveranno la Prima Comunione». La liturgia della quarta domenica di Avvento offre l’occasione per parlare delle Vergine Madre, Myriam, la donna forte che dà alla luce suo Figlio fuori dal villaggio, perché per lei e per suo marito non c’è posto all’albergo. Donna grande non per ciò che ha ricevuto, ma perché ha creduto. Il mio insistere sulla fede suona un po’ strano, perché in tante parti dell’Africa non è un problema credere, ma l’essere atei o agnostici. « È facile per voi credere in Dio – spiego ai comunicandi –, ma occorre vederlo sul volto dei nostri fratelli. Vi garantisco che, se pregherete intensamente per quattro giorni, giovedì, festa di Natale, vedrete Gesù». Terminata l’eucaristia, i chierichetti mi accompagnano in seminario, ammassati su una camionetta. Mi vogliono fare da guardia del corpo, per paura che capiti qualche cosa di brutto all’“uomo di Dio”. Fuori dal villaggio, un ragazzo chiede all’autista di fermare la camionetta: ha visto una pozzanghera (dove io non laverei neppure i piedi) e propone agli amici di bere. Mentre attendo il ritorno di quei marmocchi, sento un flebile lamento. È una giovane ragazza che ha appena partorito il suo bambino. È sola, madida di sudore, gli occhi iniettati di sangue. Il suo piccolo, come tutti i bambini africani appena nati, ha la pelle bianca (diventerà nera nel giro di poche ore). Chiamo i ragazzi e dico loro: «Venite a vedere Gesù bambino». Uno di loro mi chiede: « È già nato? Hai detto che mancavano ancora quattro giorni!».La giovane ragazza madre guarda la sua creatura con indicibile dolcezza.«E i pastori?», chiede un altro ragazzo. «E gli angeli?», aggiunge un terzo. Ora tocca a me spiegare che chi prega, chi guarda la realtà con gli occhi stessi di Dio, lo vede sul volto del più piccolo dei nostri fratelli e che ogni giorno può essere Natale.
È Natale quando vivo quella povertà che fa di Cristo la vera ricchezza.
È Natale quando mi fido degli altri come Dio si è fidato di me.
È Natale quando perdono gli altri così come Dio continuamente mi perdona.
È Natale quando ospito in casa una persona che è sola.
È Natale quando mi chino su di un bambino vedendo in lui i lineamenti del “Dio che si è fatto uomo, perché l’uomo si faccia Dio”.
C’è un’atmosfera magica nel villaggio nigeriano la notte di Natale. Ancora gli ibis, quali improvvisati angeli, volteggiano sulla grande capanna che funge da chiesa, mentre tantissimi canti salgono al cielo. Canti e preghiere spontanee a non finire: gli Africani non lesinano il loro tempo al Signore, perché sono convinti che «quando Dio creò il tempo, ne creò tanto». All’offertorio, i fedeli portano all’altare i loro doni: qualche banana, una bottiglia d’acqua potabile per il missionario (che non beve l’acqua delle pozzanghere), uno jam, la manioca, la cassava, qualche mango… Mentre essi danzano, io non riesco a nascondere la mia tristezza: ho portato un po’ di caramelle, ma sono assolutamente insufficienti per tutti quei bambini che non so da dove vengano e mi paiono triplicati rispetto alla precedente domenica. Il catechista sembra leggere sul mio volto la tristezza e mi chiede: «Padre, che cosa non va?». «Le mie caramelle non arriveranno da nessuna parte…». «Ma lei non sa che noi facciamo i miracoli!». E il miracolo si ripete: quando porto la scatola di caramelle, i chierichetti più grandi contano i presenti, rompono con i denti le caramelle e imboccano i bambini, cominciando dai più piccoli. Tutti ne hanno un pezzetto, ricevuto come se fosse una particola. Siccome le caramelle hanno gusti differenti, i bambini le succhiano per qualche secondo, poi se le passano… E riprendono a muoversi in passi di danza. Ai seminaristi nigeriani avevo insegnato che il prete deve essere il collaboratore dell’altrui gioia. Ma in questa notte santa, sono i fedeli a contagiare l’uomo di Dio che sperimenta la verità dell’affermazione biblica: «La mia gioia è stare con i figli dell’uomo». E, invitato dal catechista a esprimere ancora qualche pensiero, spontanee fluiscono le parole. La gioia di Dio e la sua gloria consistono nel trovare sulla terra gente contenta, dedita alla giustizia e innamorata della pace. Dal canto degli angeli sopra la grotta di Betlemme si deduce che la gloria di Dio è la pace tra gli esseri umani che Egli ama. Lo “shalom” (totalità dei beni, apice dei quali è appunto la pace) dà gioia e comunica la forza di illuminare la più oscura notte e forzare l’aurora a nascere. È questo il segreto del Natale: tornare ogni giorno da capo, affinché la gioia e la gloria di Dio diventino anche le nostre. Canti e danze si prolungano nella notte. I giovani mi invitano alla danza e la mia risposta: «Non sono capace di danzare» suona alle loro orecchie come: «Non sono capace di vivere». Provo a muovermi in modo buffo e goffo, e danzatori provetti volteggiano accanto a me, per coprire i miei scoordinati movimenti.
Al momento del congedo c’è un’ultima preghiera. Oltre che per i fedeli presenti alla liturgia natalizia, chiedo agli Africani che preghino perché gli Occidentali si mettano alla scuola dei poveri, degli ultimi e di quanti, pure adulti, hanno conservato il senso della meraviglia e la capacità di sognare. Che cerchino Dio con tutte le forze. Incontrandolo, il loro sogno resterà eterno e loro stessi eviteranno d’invecchiare dentro. Rimarranno giovani come il loro ottimismo. Giovani come la loro speranza. Giovani e belli come Gesù, sulle cui orme troveranno la loro vera umanità; apprenderanno il gusto di vivere; faranno emergere il Dio velato dalla carne e svelato dall’Amore e doneranno al mondo la loro esuberante, contagiosa gioia.